DISTILLER
Gianni Colosimo, Mimì Enna, Emilio Fantin, Roberto Fassone e Giovanna Manzotti,
Isamit Morales, Cesare Pietroiusti, Emilio Prini, Andrea Renzini, Luca Vanello
curated by Gabriele Tosi, Bruno Barsanti
@ OUTER SPACE, FuturDome, Milano
27/03 – 15/04/2017
Distiller è un ragionamento sulla possibile compresenza di fatti e accadimenti consentita da forme espressive al limite della materialità. Opere storiche e produzioni recenti condividono uno spazio impoverito di massa sfumandone l’estensione grazie a sostanze comunicative ridotte. Se per un verso le opere confermano la necessità di abitare il presente proponendoun’azione attiva per quanto minima quale la lettura, dall’altro accompagnano altrove, tanto lontano quanto la percezione del contesto possa risultare distante dall’idea di un mondo suggerito.
Distiller tratta lo spazio espositivo come luogo dell’impermanenza, piattaforma di un viaggio nelle galassie del fatto e del progetto. In via Paisiello 6, dove il cartongesso si mostra grezzo e le fughe di architetture vecchie e nuove saturano di prospettiva storica l’immediato svanire del presente, questa stanza può moltiplicarsi all’infinito, in dimensioni vissute e future, da esplorare col pensiero: una fortunata condizione spaziale che pone il problema della materia, del suo ingombro, del suo ciclo e della sua stasi.
Distiller è il terzo episodio di una serie di format espositivi che prendono il nome di elettrodomestici e si occupa, come i suoi predecessori Minipimer e Dryer, di come miscelare in un unico luogo il maggior numero di espressioni possibili, ruotando attorno all’idea che tutte le opere abbiano a che fare con la performance e con l’accadimento. Nel loro complesso, i format sfruttano la possibilità delle operazioni artistiche di significarsi a vicenda, in opposizione a una linea di pensiero che teme la naturale simultaneità, a volte l’incoerenza, di emozioni, fatti ed espressioni. Se Minipimer e Dryer operavano per moltiplicazione e velocità, Distiller conserva tali categorie in una loro versione essenziale, operando come un alambicco da caricare con le sostanze più disparate al fine di evocare presenze differite, anticipate o rigenerate. Qui i lavori sono come grappe che conservano nello spirito, termine non casuale, il fantasma dell’atto originario. La parte materica del processo artistico è quindi ridotta alla sola scrittura, elemento comune che crea una falsa omologia tra le opere esposte.
La metafora alcolica è incarnata alla perfezione da “Il cartello del film non fatto” di Emilio Prini. Attraverso la dichiarazione di un’assenza di documentazione, l’opera del 1966 invita a entrare in una dimensione in cui percepire quella sorta di pulviscolo concettuale che, per quanto sfuggente e impalpabile, è origine ed essenza di ogni espressione. “Tempo” di Andrea Renzini, è un dispositivo a contenuto variabile che incornicia e risignifica le porzioni contenute al suo interno, mentre “ Una pausa”, opera del 1991 di Emilio Fantin, invita il pubblico a una non azione tesa ad astrarsi dal caos del qui e ora. Viaggiare per mezzo di una scritta comporta spesso il passaggio in un portale spazio-dimensionale. “Delocazione della galleria Neon” di Mimì Enna, a prima vista una tautologia di matrice kosuthiana, è in realtà un ready made, ovvero l’insegna originale della galleria Neon, storico spazio indipendente e di sperimentazione attivo per oltre 30 anni a Bologna, città in cui opera Gelateria Sogni di Ghiaccio. “L’aurora immacolata dell’ultima sibilla cumana” di Gianni Colosimo è una rielaborazione visiva del trafiletto che annunciava su Repubblica la performance “Il grande sonno della trapezista”, incentrata sul rapporto tra testo e performer e realizzata dall’artista alla GAM di Roma nel 1981. In “Ristrutturare il pavimento di casa di Eva”, Isamit Morales rende conto di un’azione eseguita in un contesto diverso da quello espositivo, durante le riprese di un film, mettendo in dubbio l’effettiva esistenza della documentazione. Altri lavori si concentrano sugli aspetti generativi della scrittura, come “Pensieri non funzionali” di Cesare Pietroiusti. Il libro del 1997 è una lista di istruzioni per azioni fuori dall’ordinario, la cui realizzazione non è appannaggio esclusivo dell’artista. Il progetto prosegue oggi online arricchendosi delle testimonianze degli atti realmente compiuti. ”If Art Were to Disappear Tomorrow What Stories Would We Tell our Kids” di Roberto Fassone e Giovanna Manzotti, recentemente pubblicato in forma di libro e qui mostrato in un video realizzato ad hoc, immagina ciò che rimarrebbe dell’arte contemporanea se le opere sparissero, ibridando la ridotta sintassi propria della cultura digitale con l’universo del racconto e della fiaba. I lavori di Pietroiusti e Fassone-Manzotti introducono un elemento dinamico in grado di variare continuamente la configurazione della mostra. In “B.K.” Luca Vanello utilizza una confessione tradotta in linguaggio binario inserendola successivamente all’interno del codice di un’immagine da lui dichiarata “found black image”. Una matrioska di occultamenti che, insieme agli altri lavori, mette in atto un sabotaggio della documentazione.