HOBOBOLO

Alessandro Di Pietro

with a text by Treti Galaxie

07/05 – 02/06/2021

HOBOBOLO, 2021. Installation view, 250 x 600 x 150 cm, mixed media. Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna. Courtesy the artist.

No, non ci facciamo il tè mettendo in infusione gli assorbenti usati. Ha-ha. Non fa ridere. E’ da quando sono piccolo che mi sento ripetere questo genere di stupidaggini. Le ho sentite per così tanto tempo che nei secoli si sono come concretizzate in una voce interiore che per ogni situazione me ne congegna di nuovissime. Oggi per esempio mi dice: “Ricordati che gli schermi al plasma non sono commestibili”. Ha-ha. Non fa ridere. “Ha-ha. Non fa ridere. Rispondi sempre la stessa cosa. Potresti anche dirci specchio-riflesso… ops, vero, tu non puoi”. Non fa ridere. “Oh dai, ridi! Dicono che il riso faccia buon sangue”. Non fa ridere. “Non giochiamo con lui. Bara”. Basta. “Cosa c’è? Oggi non sei in vena?”. Ha-ha. Vaffanculo. “Dai, però se vuoi possiamo giocare a testa o croce. Ops, scusa”. Ha-ha. Non fa ridere.
Felix mi dice sempre che sono una persona con i sottotitoli dentro. Felix era il mio unico amico. Era una star della TV. Pensate che la prima immagine che sia mai stata trasmessa su uno schermo era la sua. Me lo ricordo ancora. Se ne stava lì, glorioso e immobile, a girare sul suo piedistallo per farsi ammirare dal mondo. Mi piace pensare che sia ancora vivo attraverso le onde della sua immagine, e che queste si propaghino ancora nell’aria, e che ogni tanto mi capiti di respirarle. Forse Felix era mio amico perché non poteva parlare. E’ difficile capire la morte se non puoi morire. Soprattutto se sei fatto di plastica e ti stai corrodendo. Felix cade a pezzi. L’ho rimesso insieme, ma mi sono dimenticato come era fatto. E’ difficile ricordarsi qualcosa a memoria quando ti ricordi tutto.
Lo portavo sempre con me. Una volta andavamo sempre al parco. Guardarlo con gli occhiali da sole era come rivederlo in bianco e nero alla TV. Guardavamo insieme il tramonto, io e il mio amico Felix. “Si, aspettando il momento giusto per fare concorrenza alle zanzare”. Andatevene affanculo. “Tu con un felino. Pensavamo preferissi i canini”. Lasciatemi stare. Come faceva quella vecchia canzone? “Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ‘l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede alla zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara”. E’ Dente. Fa bene citarlo, soprattutto adesso. Sono 700 anni dalla sua morte. Se uno dice “Dante” entra più facilmente nei motori di ricerca di internet. Controllare la corrente. E’ una cosa da parassiti, ma oggi funziona così.
Apro gli occhi e sul soffitto vedo dei graffi. Brevi righe verticali, orizzontali, circolari. Sono delle lettere. Le riesco a leggere. Leggo: “Ieri ero solo. Oggi solo ero”. Mi giro e guardo Felix. Una colonna di plastica spezzata. E’ diventato il suo stesso piedistallo. Vuoto. Cavo. Marcio. L’ho assemblato rifacendomi a come mi sento ora, probabilmente. La frase è una scemenza ed è composta male. E poi io non sono solo, ne ieri ne oggi. Sono con Felix.
Una volta che ero triste Felix mi disse una cosa. Lui è l’unico che sa che ho paura del buio. Mi disse che la parola Vampiro deriva dall’unione di Vampa e di Piro, la parola greca che indica il fuoco. Diceva che è perché anche nell’oscurità più totale mi porto dentro una luce. Così mi disegnai con due fiammelle al posto degli occhi. Mi disegnai sul retro di uno specchio. Un autoritratto per beffare una superficie che non mi può ritrarre. Mentre guardavo perplesso il risultato, Felix mi disse che dovevo distrarmi, che dovevo succhiare silicone fino a risplendere.
L’ho capita adesso. Ero sta per eroina, ma è anche la prima persona singolare dell’imperfetto del verbo essere. Essere imperfetto. Simpatico. Ho distrutto il soffitto. La cosa è durata pochi secondi, poi mi sono calmato. Ora è un buco. Ho guardato Felix. Sembrava approvare. Gli anni 90. Quel film con David Bowie. Cazzo se mi ha sputtanato. Quel film sul virus. Oggi solo ero. Siringhe. “Chissà che acquolina a guardare il telegiornale in questi giorni, vero? Era da almeno 30 anni che non si vedevano tanti buchi in prima serata”. Ha-ha. Non fa ridere. Però è vero.
Questi spiritosoni, i garbati sofisti, questi eccelsi umoristi sono gli stessi che al compleanno di Freddie Kruger gli regalavano sempre delle riviste porno. Un giorno, mentre lo aiutavo a pulire dopo la sua festa, buttando via i brandelli delle riviste Freddie mi disse: “Tutti pensano che io non sia in grado di stare al mondo. Però nessuno può pensare che io al mondo non ci sia stato”. Non ho capito cosa voleva dire, ma ci penso spesso.
L’unico con cui parlavo un po’ a scuola era Frankenstein. A lui non andava proprio giù di essere chiamato da tutti con il nome di suo padre. Lo trovava ingiusto. Per questo si faceva chiamare Pietro Di Franco. Poi un giorno, dopo aver visto Rambo, iniziò a farsi chiamare Rocky. Un nome da macho, lontano dallo stereotipo del mostro. Poi dopo aver saputo che esisteva un film chiamato “Rocky Horror Picture Show” tornò a farsi chiamare Pietro.
Comunque, vorrei chiarire una cosa. Nel mio ritratto non vi sto dando le spalle – che, in ogni caso, neanche si vedono. Vi sto dando la mia giugulare. Il punto da cui tutto per me ebbe inizio. Il mio cordone ombelicale con l’ignoto. Isaac Newton una volta disse “Se riesco a guardare più lontano di chiunque altro è solo perché me ne sto in piedi sulle spalle dei giganti”. Ecco, io me ne sto potenzialmente in piedi sulla giugulare di chiunque. “Questa era di cattivo gusto, non puoi scherzare sempre su tutto. Devi metterti dei paletti. Ops, scusa”. Non fa ridere.
Quando di giorno non riesco a dormire, chiedo a Felix di raccontarmi la storia della signora di Bologna. La racconto anche a voi. La storia è questa:
Negli anni 70 un commando armato rapì una nota imprenditrice bolognese. Il gruppo chiese alla famiglia della donna, che era molto ricca, un riscatto di un miliardo di lire. Era una favolosa quantità di denaro. La famiglia acconsentì, pur di riaverla viva. Però, la famiglia disse ai rapitori che per recuperare quella somma in contanti avevano bisogno di tempo. Di molto tempo. Settimane, forse mesi. I rapinatori acconsentirono, e per essere sicuri che la donna arrivasse viva alla consegna del denaro la fecero smettere di fumare. Le fecero fare ginnastica ogni giorno. Le insegnarono lo yoga. Le cambiarono la dieta e la fecero diventare vegana. Isolati nel loro covo sui colli bolognesi, le leggevano gli ultimi libri usciti e le facevano ascoltare i nuovi dischi. Per farla rimanere attiva le insegnarono a ballare. Per farle capire meglio i testi delle canzoni, le insegnarono la lingua inglese.
Pagato il riscatto, al suo rilascio, dopo sei mesi di prigionia, per prima cosa la famiglia la portò in una clinica privata e la fece visitare da una équipe di medici. La trovarono in un sorprendente stato psicofisico, molto al di sopra della media della sua età. Dopo vari giorni di visite, il primario le disse: “Questa prigionia è la cosa migliore che ti sia capitata nella vita”.
E allora noi ogni mattina ci addormentiamo ripetendoci come un mantra quest’ultima frase.